Ancora una volta, le declinazioni e variabili degli stili, dell’esecuzione e della celebrazione del confronto tra realtà differenti, è la chiave giusta con cui il Cala Gonone Jazz Festival dischiude i cancelli di un universo governato unicamente dai linguaggi della musica. E tramite questi linguaggi, l’edizione numero trentasette è stata capace di raccontare storie, Paesi, tradizioni e contaminazioni, insieme contrastanti e affini.
Il tema “Piece of Shelter” è stato senz’altro calzante e ha dato modo alla programmazione di potersi sbizzarrire con la scelta di un palinsesto vario e predisposto a ogni sensibilità del pubblico. Il rifugio nel golfo di Orosei, cullato dalle onde e protetto dalle montagne, è stato l’abbraccio accogliente che ha tenuto sul palmo le esibizioni dei sardi e fieri Pierpaolo Vacca, Dj Cris, Coro Eufonia, Giulio Piras e Paolo Angeli, nella loro terra, ma ognuno con un diverso messaggio e la volontà di comunicare la propria anima, di mostrare un diverso volto della propria isola con le sue leggende, le capacità di adattamento della popolazione sarda e la sua straordinarie abilità nel rendere uniche le influenze esterne provenienti da ogni angolo del pianeta. Le lotte che la Sardegna deve portare avanti continuamente contro lo sfruttamento delle sue risorse naturali e la resistenza proverbiale dei suoi abitanti, come ha ricordato anche Paolo Angeli.
E per quanto riguarda i contributi internazionali: il jazz manouche degli Urban Gipsy, con le chitarre dei giovani Dimitri Kushnirov e Francesco Greppi, un genere che da solo è testimonianza della bellezza della vita imprevedibile e in viaggio, per necessità e anche per conoscere, evolversi, apprendere e condividere.
Faraj Suleiman con il suo straordinario quartetto, che ha intrattenuto gli amanti del jazz portando sul palco innovazione, improvvisazione e chicche uniche mescolate con sonorità arabe, direttamente influenzate dalle sue orgogliose origini palestinesi.
E di Palestina si è parlato nell’ambiente più intimo e amato del festival, le Grotte del Bue Marino, insieme a Naissam Jalal, flautista siriana – accompagnata dal caldissimo violoncello di Lina Belaid- in duo ha tenuto col fiato sospeso i numerosi presenti, tra canti e nenie orientali, incursioni ricercate e un pensiero alla guerra incombente, dichiarando il proprio sostegno alla popolazione palestinese.
Di Jazz e variazioni sul tema, condite –come da cartellone- da significati più profondi, si è tornati l’ultima sera del primo weekend con Francesca Tandoi, pianista di punta del panorama italiano che ha dato uno scossone ai registri più classici per reinterpretarli in una chiave più fresca e personale. Ma l’esplosione è arrivata con i veterani del genere, Kahil El’Zabar’s Ethnic Heritage Ensemble 50th Anniversary, con il loro spirito dirompente, rivoluzionario (in ogni suo senso) e una grande performance sul palco, un quartetto potente, animato dallo spirito del funk, del soul e della musica nera, sempre pronta a tradurre le proprie istanze, rabbia e necessità di giustizia nella musica, con risultati prodigiosi.
Gli ultimi due giorni, 27 e 28 luglio, dedicati al pianoforte, sono stati l’ultima testimonianza della buona riuscita del festival. Nonostante il caldo torrenziale, il pubblico non si è lasciato scappare l’occasione di vedere due grandi stelle del jazz contemporaneo: Emmet Cohen e Amaro Freitas. Il primo, in trio con il giovane contrabbassista Joey Ranieri e il temprato e navigatissimo Joe Farnsworth alla batteria, hanno saputo tenere il palco per quasi due ore con una serie di brani decisi e vivaci, virtuosi eppure di facile ascolto, per chi già ama il genere e per quanti stanno imparando a conoscerlo anche attraverso questi nuovi volti.
L’ultima serata, in solo, il carioca Amaro Freitas. In una conversazione con il suo strumento, tra tasti, corde e voce, il giovane compositore brasiliano, brioso e coinvolgente, ha tirato giù il sipario lasciando un leggero spiraglio, una promessa per il futuro. Ormai innamorato del festival, del suo pubblico e dell’ambiente che lo ha accolto, il suo impegno è quello di tornare, come ogni persona che in questo ospitale e incantevole “piccolo rifugio” fa a se stessa.