La stagione dei sequestri in Sardegna nel racconto di Salvatore Mulas, ex capo della Squadra Mobile di Nuoro

Salvatore

La stagione dei sequestri in Sardegna nel racconto di Salvatore Mulas, ex capo della Squadra Mobile di Nuoro

sabato 01 Luglio 2023 - 13:40
La stagione dei sequestri in Sardegna nel racconto di Salvatore Mulas, ex capo della Squadra Mobile di Nuoro

Questura di Nuoro, squadra catturandi

NUORO – Nelle indagini sui sequestri di persona in Sardegna c’è spesso stata la sua mano, con interventi anche risolutivi. Lui è Salvatore Mulas, 67 anni, di Macomer, ex prefetto di Sassari e Verona, e capo del dipartimento dei Vigili del fuoco. Ma ancor prima, negli anni ’80, capo della Digos e della squadra mobile a Nuoro, tra i più caldi per l’offensiva dei sequestratori. Basti ricordare i 90 rapimenti tra il 1975 e la fine degli anni ’90, che ebbero come ultima vittima Silvia Melis, una giovane mamma di Tortolì. Ormai in pensione, ieri Mulas ha fatto la ricomparsa in città, in questura, per la cerimonia di intitolazione della sala di formazione degli agenti alla memoria dell’ispettore Salvatore Pilia (APPROFONDISCI), che in Barbagia ricordano come uno dei poliziotti di punta nella lotta al banditismo, abbiamo ricordato insieme quegli anni.

Il prefetto Salvatore Mulas

Il prefetto Salvatore Mulas

Dottor Mulas ritorniamo di qualche decennio indietro. I suoi anni a Nuoro: quali i segni?  «Sono segnati soprattutto dal lavoro, in questa terra splendida, con questi uomini magnifici. Perché questi sono uomini che difficilmente lei riesce a trovare in altre parti d’Italia, in quanto facevano un lavoro particolarissimo. Il lavoro della cosiddetta “Squadra catturandi” in Sardegna era fatto di passione, di attenzione. Un lavoro certosino, che non esiste in altre parti d’Italia. Io, dopo Nuoro, ho fatto la squadra mobile di Palermo, dal 1992, nel periodo delle bombe, ho fatto Torino, ho fatto tante altre cose. Però Nuoro, le posso garantire, è una palestra eccezionale. Prima di tutto per forgiare il carattere del funzionario di polizia. Perché era un grande sacrificio stare qua, un grande sacrificio giorno e notte. E poi, soprattutto, dal punto di vista morale. È questo che voglio dire: noi sardi siamo persone perbene, siamo capaci di grandi tensioni morali. E l’ispettore Pilia, l’ispettore Antonio Serra, tutti questi ragazzi, l’ispettore Piga, Marongiu. Tutta questa gente ci ha insegnato anche a saper stare al mondo».

Come ricorda la società del Nuorese in quel periodo, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90?  «Una società complicata. Ma lo sa qual’è il problema? Per me non è facile dirlo…  per anni non sempre si è avuta la giusta attenzione da parte del centro… (dello Stato, ndc), e spesso e volentieri noi, Forze dell’ordine, non siamo stati capiti, ma non perché volevamo essere capiti a tutti i costi, ma, piuttosto, volevano essere solo rispettati. Questa è la chiave di tutto. Il sardo è buono, ma tu non puoi andare in campagna e mettere a ferro e fuoco l’ovile, perché non ti danno notizie sul latitante. È ridicolo. Perché quello Stato non riesce a garantirti la sicurezza. Perché se lo Stato avesse potuto dirmi, “No, io ti metto qua quattro carabinieri, e tu mi racconti la storia, che cosa hai visto, chi è passato e chi non è passato…”, allora, uno avrebbe potuto decidere, “beh…” Ma se tu parli, poi chi resta in campagna? Poi ti devi arrangiare. E se ti sgarrettano il bestiame, se ti bruciano il fienile, com’era facile potesse accadere… Erano anni difficili, complicati, duri per tutti».

Il vostro stato d’animo alla notizia di un rapimento? «Mah, lo stato d’animo era complicato. Sa cosa pensavo per prima cosa? Di andare a casa dei parenti dell’ostaggio e dire: “Lo stiamo cercando, state tranquilli che prima o poi lo troviamo, che prima o poi tiriamo fuori l’ostaggio”. Ma i parenti ci rispondevano: “Sì, dottor Mulas, lei ha ragione. Però mia figlia, o mio marito, è ancora in mano ai banditi”. E questo tutti i giorni che Dio mandava in terra, sinché il sequestrato non veniva fuori. Quindi, era anche complicato il rapporto con la famiglia, giustamente. Ma questo è umano. Non è una cosa difficile da capire».

Quindi, fiducia o, piuttosto, diffidenza e distacco tra voi e la famiglia del sequestrato, dottor Mulas? «Allora. Normalmente si parte sempre con una grande diffidenza. Poi si capisce. Due erano le cose: o ci mettevi il piede sopra, la polizia o i carabinieri, o pagavi il riscatto. Non c’era altro modo per arrivare alla conclusione del sequestro. La storia dei sequestri di persona è una storia veramente complessa, anche perché tutti tentavano di inzuppare il proprio biscotto. Arrivavano tutti, e tutti dovevano dire qualcosa. Altri carabinieri, altri poliziotti, altri magistrati, i servizi. Poi, quando capitava un sequestrato straniero c’erano gli ambasciatori, le ambasciate. Era, mi creda, molto, molto complicato».

La liberazione di uno ostaggio, quali sensazioni? «Credo che sia non da paragonare alla nascita di un figlio, ma quasi. Senti di aver fatto qualcosa d’importante, di aver restituito un parante alla famiglia, un figlio a una mamma, un marito alla moglie. È una cosa veramente fuori dal comune».

La fase più delicata nell’indagine su un sequestro di persona? «Beh, prima di tutto proprio il momento iniziale, quando devi riuscire a far capire alla famiglia che si sta lavorando per arrivare a una soluzione. Tutto questo, però, con le complicanze anzidette, e che conosciamo. Aumentate dalla tensione, dall’attesa infinita. Perché qua, nel Nuorese, i fuorilegge stavano mesi e mesi senza dare notizie dell’ostaggio. Ma era una cosa normale. Era una pressione psicologica mostruosa: non dire nulla dell’ostaggio. Lasciarti cuocere nel tuo brodo e poi aspettare. Quindi, se la fase iniziale è sempre complicata, qua in Sardegna è molto, molto più complicata. Perché fare gli accertamenti nell’Isola non è come farli a Roma, a Milano o a Torino. Qua andare a Lula… dove ti conoscono tutti. Andare a Bitti, dopo due secondi sanno già che siamo in paese. E per fare un nome dovevi prendere l’intero casellario di tutto il Comune. Quindi la questione si complica».

Quali, secondo lei,  le conseguenze per la comunità sarda, e nuorese in particolare dei sequestri di persona? «Terribili. Veramente, è stato un disastro economico per la nostra terra di proporzioni inenarrabili. Lo posso dire da macomerese. Io sono di Macomer. Quando sono iniziati i sequestri di persona noi andavamo a scuola con i Bozzano, gli Albano, i Melchiorre, i Dalmasso. A un certo punto inizia il fenomeno dei rapimenti. Si è trovato da qualche parte un elenco di nominativi: dall’oggi al domani, Gabriela, Roberta, ecc., sono sparite da scuola, e sono andate via, tutte. E se ne sono andate, mi pare, nell’alto Lazio. Sì, sono rimaste per un po’ di tempo ancora le industrie casearie, ma poi, dopo qualche stagione, le hanno chiuse. Perché, come si suol dire “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo”. E chi è rimasto? Posso fare i nomi: purtroppo Dino Toniutti, purtroppo, Giuseppe Vinci, purtroppo, Franco Locci (tutti vittime o familiari di rapiti, ndc). Gli altri sono andati via. E da là, posso affermarlo e sottoscriverlo, è iniziata una decadenza totale. Certo determinata anche da altri fattori economici. Ma uno tra i motivi è stato il fenomeno dei sequestri di persona. Ha portato grande danno economico a tutta la Sardegna».

Francesco Pirisi

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