Il VIAGGIO – Un viaggio di sola andata, dalla guerra alla salvezza: questo è quello che da settimane sta vivendo il popolo ucraino. Mentre noi viviamo “sicuri nelle nostre tiepide case” – per citare Primo Levi, tornando a casa (perché abbiamo una casa) troviamo “cibo caldo e visi amici” e continuiamo a crogiolarci nel nostro egoismo e nella nostra insensibilità, c’è gente che non ha più ne la propria abitazione (o perché distrutta dai missili russi o perché costretto ad abbandonarla) ne la propria più o meno comoda vita, in quanto la guerra gliel’ha tolta, da un momento all’altro, senza se e senza ma. Privati di tutto, talvolta anche degli affetti e costretti a fuggire, se sono stati fortunati i profughi hanno con sé qualche valigia se si sono messi in cammino così come le bombe li hanno sorpresi. Da un momento all’altro non hanno più nulla, “solo” la propria vita e la speranza nella fuga. Questo per quanto riguarda donne e bambini ucraini mentre i maschi dai 18 ai 60 anni, pena la legge marziale, devono rimanere e combattere per tentare di arginare l’avanzata di un nemico gigantesco contro il quale le speranze di vittoria sono inesistenti.
Parto da Nuoro il pomeriggio di giovedì 17 marzo 2022, insieme ai volontari dell’associazione SVS che hanno organizzato la missione umanitaria, per imbarcarci da Olbia alla volta della Penisola: porteremo con noi un carico di beni di prima necessità e medicinali destinati all’ospedale di Kiev, frutto del buon cuore della gente del Nuorese, e porteremo in salvo una trentina di profughi che troveranno ospitalità in Sardegna. Il mio obiettivo è quello di capire qualcosa di più di quanto sta accadendo e di quanto le fonti ufficiali raccontano, parlando direttamente con le persone che stanno vivendo il dramma della guerra. Avere notizie di prima mano, infatti, non è facile, la diffidenza è tanta e le poche cose che vengono raccontate sembrano avere tutte un’unica matrice preconfezionata.
Tre giorni e quattro notti in viaggio per raggiungere il confine tra Polonia e Ucraina, teatro da circa un mese della guerra di occupazione messa in atto dalla Russia. 3350 km (1600 all’andata e 1750 al ritorno) da percorrere quasi senza soste, se non per qualche caffè e qualche ora di sonno, attraverso Slovenia, Ungheria, Slovacchia e Polonia e poi Repubblica Ceca e Austria, prima di fare rientro in Italia.
Staccarsi dalla propria realtà e immergersi in un universo come quello est europeo è un’esperienza profonda, quasi mistica, e attraversarlo in maniera veloce come stiamo facendo noi lo rende ancora più straniante. Oltre Gorizia tutto appare diverso. Sono diverse le strade, che contrariamente a quanto si pensa sono pulitissime e al limite della perfezione; è diversa la valuta (per quanto facenti parte dell’Unione Europea, infatti, alcuni stati continuano a mantenere il proprio conio); è diversa la fisionomia delle persone, la loro lingua e l’atteggiamento nei confronti degli italiani (non sempre esattamente amichevole); è diversa l’economia, basata su sterminate colture cerealicole e sulla lavorazione del legname; sono diverse le abitazioni e i paesaggi, spesso punteggiati da enormi cartelloni pubblicitari di beni di lusso, come le automobili o il vicino fast food (già, anche qui); sono diverse le marche di carburante e le relative aree di servizio (e pure il prezzo, ovunque prossimo a 1,6 euro mentre in Italia siamo a oltre 2,20 euro) ed è diversa persino la musica che senti alla radio, che non passa praticamente nulla di conosciuto. Tutto è diverso ma tutto è maledettamente bello e affascinante, a tratti fiabesco.
Nel frattempo le distanze scorrono veloci, ogni 5-600 chilometri ci si alterna alla guida dei furgoni. Visto attraverso i finestrini dei nostri automezzi, stupisce l’atteggiamento delle popolazioni locali, che pur avendo la guerra a pochi km e convivendo con la consapevolezza che questa sconfini, volutamente o per errore, continuano mestamente a vivere il proprio quotidiano.
Nell’attraversare i piccoli borghi di montagna osserviamo i taglialegna che riordinano i tronchi nei campi o all’esterno delle segherie, enormi trattori impegnati nell’aratura dei campi, i bambini che si recano a scuola, le donne che accudiscono l’orto o fanno la spesa, persino qualche ciclista. Insomma un’apparente terribile normalità.
Alle pendici della cosiddetta “Valle della morte”, però, al confine tra la Slovacchia e la Polonia, incontriamo i primi segni bellici: in più punti vecchi carri armati della Seconda Guerra Mondiale sono diventati un monumento ai caduti in combattimento, tra cui anche diversi italiani. La tensione negli equipaggi si fa palpabile e gli inviti via radio ad accelerare sono continui, soprattutto nei punti in cui le strade si avvicinano alla linea di confine.
Bisogna fare in fretta a raggiungere la Przemyśl, la nostra meta, un tempo ultimo baluardo dell’impero austro ungarico, oggi ricadente al confine tra Polonia e l’Ucraina, distante meno di 100 km da Leopoli, uno dei luoghi caldi della guerra. SEGUE (LEGGI QUÌ)
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