di Salvatore Novellu
Una delle descrizioni più attente e dettagliate di ciò che dovette essere il centro ogliastrino di Gairo all’epoca del suo massimo splendore ce la fornisce il padre Vittorio Angius (Cagliari 1798 – Torino 1862) nel Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna.
Secondo la tradizione, riportata anche nel citato Dizionario, le origini del paese sono da ricondurre alle vicende di un pastore originario della vicina Osini, il quale stabilì la propria capanna e la propria mandria “in quel luogo di questo abitato che dicono Lorista”, dove qualche tempo dopo trasferì anche la famiglia e i “suoi servi, i quali cresciuti in un popolo ebbero dagli Osinesi fratelli una parte del territorio”.
Ai tempi dell’Angius, parliamo del 1818 circa, Gairo contava circa 250 famiglie. Oltre alla parrocchia intitolata a Sant’Elena e alla chiesa dedicata allo Spirito Santo, aveva due chiese campestri, San Lussorio e la Vergine del Buon Cammino, in cui si celebravano ricche feste e con mercati assai frequentati.
Il suo territorio era ricco di sorgenti ma le fonti che alimentavano il paese erano principalmente due: Funtana manna e Sa Colorist’acqua, dalle quali sgorgava un’acqua descritta come “fresca e leggera”. Tra le attività evidenziate dal padre scolopio, ricordiamo la presenza di diverse fornaci per la produzione della calce.
A proposito delle varie colture del territorio, Angius ne sottolinea la vocazione vitivinicola e l’ampia produzione di cannonau e vernaccia, dal “gusto soave” e di qualità di gran lunga superiore a quelli dei centri vicini, tra cui cita anche Jerzu, in parte esportati nella Penisola dai mercanti genovesi, in parte consumata in loco, mentre la sovrapproduzione era distillata in acquavite.
Il vecchio borgo di Gairo, ormai in rovina, è ancora oggi uno dei più belli e affascinanti angoli d’Ogliastra e di tutta l’Isola.
Per comprenderne la storia tormentata bisogna andare a ritroso nel tempo, alla fine dell’Ottocento, quando alcuni violenti nubifragi provocarono frane e smottamenti all’interno dell’abitato. Già l’Angius, una decina d’anni prima, sottolineava che “Vi piove spesso coi venti boreali e orientali, e vi grandina e fulmina”… ma “Non si patisce alcuna umidità perché il luogo è siffatto, che le acque scorrono spontanee”.
I fenomeni avversi si ripeterono per circa mezzo secolo, fino alla terribile alluvione del 1951, quando tra il 14 e il 19 ottobre piovve ininterrottamente a dirotto giorno e notte. Presa coscienza che viverci non era più sicuro, iniziò l’esodo degli abitanti, terminato ai primi anni Sessanta. Da allora il paese fu definitivamente abbandonato. I gairesi, però, non riuscirono a trovare un accordo sul luogo dove ricostruire le proprie case e si divisero dando origine a tre nuclei abitativi a sé stanti: Gairo Sant’Elena, Gairo Taquisara e Gairo Cardedu. Il primo è ormai noto semplicemente come Gairo, e si trova a brevissima distanza dal paese più antico. Il secondo, Taquisara, dista qualche chilometro, è popolato da circa 300 abitanti e ospita una stazione del Trenino Verde. Il terzo, Gairo Cardedu, ormai noto come Cardedu, è costruito su una piana in prossimità del mare.
Gairo vecchio continua ad affascinare i suoi visitatori e ad attirare gli appassionati di percorsi alternativi a quelli della Sardegna più nota. L’impianto urbanistico del borgo è quello tipico degli insediamenti di montagna (in passato l’abitato era circondato da una folta foresta di lecci) con vie ripide, spesso addolcite da ampie gradinate, intersecate da tratti pianeggianti. Le abitazioni seguono il ripido pendio su cui furono edificate, utilizzando materiali locali quali lo scisto e il granito; la maggior parte di esse è a più livelli: al piano terra erano ospitati la cucina e i locali di servizio mentre al piano superiore erano alloggiate le camere da letto; frequente la soluzione del doppio ingresso, con quello principale al piano terra e uno secondario al piano superiore aperto sulla via retrostante.
Percorrendo gli antichi vicoli selciati, intitolati ai vari Mazzini, Garibaldi e Umberto I°, tra scalinate e edifici diroccati, alcuni dei quali conservano all’interno vivide tracce di colorazione rosa e blu alle pareti, si odono ancora risuonare gli echi dell’epoca risorgimentale.
Oggi, per ragioni di sicurezza è vietato l’accesso alle vecchie case, ma anche dall’esterno si riescono a intravvedere resti di ampie arcate, scale, armadi a muro, caminetti e altri piccoli segni di quella che un tempo doveva essere la vita domestica quotidiana e, lavorando di fantasia, si possono ancora udire le voci e rumori delle vite che si consumarono in quegli ambienti nel corso dei secoli. Attraverso i varchi degli infissi, in genere del tutto rimossi o disfatti dal tempo, si intravvedono viste mozzafiato sui ripidi paesaggi ogliastrini, veri e propri dipinti che ancora emergono dalle nebbia del passato.
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