Rimasto custodito per decenni nella casa di via Attilio Deffenu, a Nuoro, il Fondo Raffaello Marchi-Mariangela Maccioni entra ora nel patrimonio culturale pubblico, con l’acquisizione dell’archivio da parte dell’Isre. L’Istituto Superiore Regionale Etnografico ha rilevato la raccolta, un corpus unico nel suo genere, relativo alla cultura popolare sarda: oggetti, lettere, documenti, manoscritti, fotografie, bobine audio, risalenti in massima parte dalla seconda metà dell’Ottocento al primo cinquantennio del Novecento e appartenuta a Raffaello Marchi, “intellettuale nuorese e antropologo autodidatta”, come lo definisce la studiosa delle tradizioni popolari Clara Gallini.
L’acquisizione ha permesso il ritrovamento di un documento finora inedito: una lettera di Grazia Deledda, indirizzata a Mariangela Maccioni, moglie di Marchi e personaggio di spicco dell’intellettualità nuorese. La missiva porta la data del 22 dicembre 1932, ed è un affettuoso messaggio che testimonia di un profondo legame di amicizia tra le due donne.
Particolarmente significativo, tra le altre cose, il materiale fotografico, che ritrae spesso momenti cruciali per la storia dell’Isola: i primi trattori delle cooperative di Orgosolo, arrivati nel paese barbaricino nei primi anni Sessanta; istantanee che raccontano l’architettura delle abitazioni degli anni Cinquanta e Sessanta; bobine con registrazioni di canti a tenore; documenti e testimonianze sul Boe Muliache, la creatura fantastica presente in numerose leggende della tradizione popolare isolana.
«Marchi non era un accademico ma un appassionato» spiega Marina Moncesli, la professoressa e scrittrice nuorese che su incarico di Giovanni Canu, figlio adottivo di Raffaello Marchi e unico erede dell’antropologo, ha curato l’inventario di tutta la collezione. «Di grande rilevanza» aggiunge la Moncelsi «un’interessante analisi linguistica de Su patriotu sardu a sos feudatarios, conosciuto anche dal suo incipit Procurade ‘e moderare, il componimento rivoluzionario e antifeudale scritto in epoca sabauda da Francesco Ignazio Mannu durante i moti rivoluzionari sardi. L’analisi di Marchi è una sorta di saggio linguistico che rivela un punto di vista interessante, quello degli anni Cinquanta, di un inno fino ad allora poco conosciuto».
Personaggio eclettico, amico di Costantino Nivola e di Emilio e Joyce Lussu, collaboratore di De Martino, in contatto con Maurice Le Lannou ed Henri Cartier-Bresson, Renato Guttuso, Manzù, Aligi Sassu, Salvatore Quasimodo, Raffaello Marchi con i suoi studi antropologici fu un punto di riferimento per tutta la cultura sarda e, in particolare, per quella nuorese.
«Marchi non era uno studioso sistematico ma un personaggio complesso, dall’anima curiosa e dallo spirito poetico. Questa collezione, che ho custodito intatta nel tempo, è stata ceduta all’unico ente che saprà preservarla: l’Isre», racconta l’artista Giovanni Canu, figlio adottivo di Marchi e unico erede, che in questi anni ha preziosamente preservato il patrimonio appartenuto al padre.
«A partire dagli anni Cinquanta la Sardegna e in particolare Nuoro» aggiunge Giuseppe Matteo Pirisi, presidente dell’Isre, «diventarono terreno privilegiato per lo studio delle tradizioni popolari, seguendo un percorso aperto da Ernesto de Martino, il padre dell’etnologia italiana, e continuato da Franco Cagnetta, autore dell’inchiesta Banditi a Orgosolo, o da maestri della fotografia come Pablo Volta. In questo contesto, Raffaello Marchi e Mariangela Maccioni furono punto di riferimento per tutti, un collante per coloro che in quegli anni si avvicinarono alla cultura popolare sarda».