Annus horribilis per i cerealicoltori sardi. Prezzo del grano ai minimi storici: non copre i costi di produzione

Si preannuncia una nuova annata terribile per i cerealicoltori sardi con il prezzo del grano ancora con il segno meno rispetto allo scorso anno quando venne pagato già il 30 per cento in meno rispetto al 2015.

Le speculazioni, favorite dall’invasione del grano duro dall’estero, stanno facendo crollare il prezzo del grano dallo scorso anno pagato ai cerealicoltori sotto i costi di produzione. Un pacco di pasta imbustato in Italia su tre è fatto con grano straniero senza alcuna indicazione per i consumatori.

Sono ben 2,3 milioni le tonnellate di grano duro che sono arrivate lo scorso anno dall’estero, quasi la metà delle quali proprio dal Canada che peraltro ha fatto registrare nel 2017 un ulteriore aumento del 15% secondo le analisi Coldiretti su dati Istat relativi ai primi due mesi del 2017. Una realtà che rischia di essere favorita dall’approvazione da parte dell’Europarlamento del Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con il Canada che prevede l’azzeramento strutturale dei dazi indipendentemente dagli andamenti di mercato.

È l’allarme lanciato dalla Coldiretti in occasione dello scoppio della #laguerradelgrano che questa ieri ha portato migliaia di agricoltori alle banchine per lo scarico di un mega cargo con grano canadese al Porto di Bari.

“Siamo vicini ai nostri colleghi – sottolinea Paolo Floris cerealicoltore di Sanluri – perché combattono una battaglia anche nostra”.

Per il terzo anno consecutivo la remunerazione al produttore in Sardegna è sempre con il segno meno. Nel 2014 un quintale era pagato al cerealicoltore ai 31 euro a quintale. Nel 2015, 27 euro per crollare lo scorso anno a 22 euro.

«Quest’anno il prezzo che si sta presentando nel mercato è ancora inferiore: dai 18 ai 22 euro al quintale –denuncia Paolo Floris –, produrremmo ancora un anno in perdita, non riusciremo a pagarci i costi di produzione. Le spese vive per coltivare un ettaro di terra si aggirano intorno ai 750 euro, mentre il ricavato si ferma a circa 630 euro».

Le 750 euro servono a malapena a pagare il seme, il concime, i diserbi, il gasolio, la mietitura. Resta fuori dal conteggio il lavoro dei cerealicoltori, che non è poco; dall’altra il raccolto in media ad ettaro è di 30 quintali di grano (in molte zone quest’anno a causa delle siccità si è abbassata) che pagati a 21 euro (anche se per molti il prezzo è inferiore e arriva fino a 18 euro) significa che l’introito lordo è di 630 euro.

«Non possiamo continuare a coltivare in perdita. Molti ettari il prossimo anno rimarranno incolti» annuncia Floris.

La superficie coltivata a grano duro in Sardegna è crollata negli ultimi 12 anni del 60 per cento, perdendo 58.129 ettari.  Si è passati dai 96.710 ettari coltivati nel 2004 ai 38581 del 2015.

«Il minimo storico lo abbiamo registrato nel 2011 – ricorda Floris – quando si coltivarono solo 24.500 ettari. Piano piano stavamo recuperano fino ad arrivare ai 38.500 del 2015. Adesso assisteremo ad un nuovo esodo dei cerealicoltori. Non è possibile che il concime costi più del doppio del grano”.

Nel 1976 un contadino per un quintale di grano riceveva più di quanto non riceva oggi: 48 mila lire rispetto ai 18 – 21 euro di quest’anno. A fermarsi è stato solo il prezzo del grano mentre tutti gli altri costi di produzione sono cresciuti a dismisura. Un esempio su tutti: il concime nel ’76 costava 5mila lire, oggi 50 euro.

«Senza trasparenza si lascia campo libero alle speculazioni (nel passaggio dal campo alla pasta il prezzo aumenta di circa il 500%, mentre dal grano al pane addirittura del 1400%) – denuncia con forza il presidente di Coldiretti Sardegna Battista Cualbu -. In assenza dell’etichetta di origine il consumatore ignora ciò che compra e non sceglie consapevolmente. Non sa che la pasta che mangia è prodotta con grano estero vecchio di oltre un anno e trattato con glifosate che in Italia è vietato dall’agosto dello scorso anno, cosi come siamo il Paese in cui i limiti alle sostanze contaminanti sono più alti che nella maggior parte del mondo».

Eppure gli italiani nella consultazione del Ministero delle Politiche Agricole hanno detto senza esitazione e con numeri bulgari (81%) che la mancanza di etichettatura di origine nella pasta è ingannevole.

L’esigenza dell’etichetta di origine è stata sollevata dalla Coldiretti e raccolta positivamente dai Ministri delle Politiche agricole Maurizio Martina e dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che hanno avviato la procedura formale di notifica all’Unione Europea dei decreti per l’introduzione in Italia dell’obbligo di indicazione della materia prima per la pasta: “ma è necessario concludere il prima possibile”.

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Sonia