Il falso pessimismo di Salvatore Satta

Scrive Salvatore Satta nel suo Il giorno del giudizio: “Mi chiedo se ci sia più speranza in tutte quelle tombe dove i morti se ne stanno soli o in questa terra sotto la quale le ossa di infinite generazioni si accumulano e si confondono, si sono fatte terra anch’esse”.

Il clima simil-ossianico di queste righe mi fa ancora una volta tornare sul dibattito fattosi ultimamente ricorrente: quello sulla reale natura della poetica dell’illustre giurista e romanziere nuorese. Vi è del pessimismo, tra le pagine sattiane, oppure no?

Nel grande romanzo – affresco pubblicato nel 1977 (aveva iniziato a scriverlo sette anni prima, cinque prima della sua scomparsa) la capacità di analisi del Satta intorno ai più vari aspetti dell’esistenza umana appare filtrata attraverso una assoluta e razionale (scientifica, si potrebbe dire) presa di distanza da qualsiasi ombra di sentimento suscitato dalle circostanze riferite e dai più disparati fenomeni umani narrati nel romanzo stesso.

Alla narrazione Satta partecipa, ma certo non con moti soggettivi del proprio animo. L’attenzione dell’autore, come quella dell’entomologo nei confronti dell’insetto oggetto delle proprie attività di studio, appare invece neutra e incentrata sull’ambiente microcosmico nuorese. Benché possa dare l’impressione di riguardare solo una cerchia ristretta di persone (i personaggi che animano la Nuoro a cavallo tra gli ultimi anni dell’Ottocento e primi decenni del Novecento) essa viene trasfusa in una sintesi che a ben vedere mette a nudo l’animo di tutti gli uomini. Oltre a ciò Il giorno del giudizio, magnum opus sattiana, non può essere definito romanzo pessimista, essendo in fondo, semmai, il risultato letterario che consegue naturalmente al legame viscerale dell’autore (mai troppo esternato dallo stesso, a dire il vero) nei confronti dei luoghi che l’hanno visto nascere e di un desiderio nostalgico dello stesso Satta di, in qualche modo, “ricongiungersi” idealmente alla propria famiglia, alla gente e ai personaggi talvolta molto singolari che del romanzo sono protagonisti.

Concordiamo sull’affermazione secondo cui Satta cerca nella scrittura “l’ordine e la compostezza che non trovava nella vita” (Fortuna). Verosimile e sul filo della vocazione autobiografica dell’opera in argomento anche l’idea di un autore che “deve sanare alcune ferite: nei confronti della madre (di cui ha rifiutato il viatico quando è andato via da Nuoro); nei confronti di un fratello maggiore morto prima di lui e col quale aveva letto “in un assolato pomeriggio di Nuoro” le Vite di Plutarco; nei confronti del padre, perché il figlio, quando diventa grande, si rivolta contro il padre” (Cerina).

Molti anni prima che Il giorno del giudizio venisse dato alle stampe, e precisamente nel 1948, Satta aveva pubblicato De profundis, saggio-romanzo scritto tra il giugno 1944 e l’aprile del 1945. Il libro prende le distanze, all’indomani della firma dell’armistizio ed il dilagare della guerra civile in tutto il paese, dai paradossi storico politici che hanno generato la “morte della patria”.

Figura topica dello scritto sattiano è quella dell’”uomo tradizionale”, opportunista, voltafaccia, meschino, privo di ideali che non coincidano con il proprio tornaconto, responsabile, infine, della morte della patria perché “incapace di elevarsi al di sopra dell’istinto di autoconservazione, privo della capacità di distinguere il bene dal male, ma non di quella di calcolare vantaggi e svantaggi immediati. Per questo, avvertendo i segnali di pericolo, è ora pronto ad abbandonare la nave che affonda, a praticare una seconda abiura, dopo quella compiuta vent’anni prima nell’aderire al regime degli avventurieri” (Bodei).

Non occorre peraltro un grande spirito di osservazione per accorgersi che di “uomini tradizionali” il mondo è affollato anche ai giorni nostri, ciò che rende l’opera sattiana assai attuale. Ben lungi dall’essere catastrofista, disfattista, nichilista, nel libro Satta si impegna invece in una analisi minuziosa e assai tormentata dei fenomeni storici osservati.

La valutazione attenta e accurata svolta con razionalità e rigore dallo scrittore nuorese ha a che fare però non con il suo supposto pessimismo ma con una ferrea volontà di capire i fatti accaduti per poi raccontarli, trascendendo le ragioni delle varie parti in causa, così come sono stati rilevati dall’autore.

Nella lettera con la quale la casa editrice Einaudi rifiuta di pubblicare il De Profundis, con le parole che seguono Massimo Mila accusa Satta di pessimismo catastrofico: “Nella nostra casa editrice siamo tutti partigiani, e non accettiamo la Sua posizione sugli avvenimenti 1940 – 1945 in termini sostanzialmente nazionalistici, di vittoria e sconfitta militare: quello che c’importa è la vittoria politica, civile e morale che la sconfitta militare ha significato per noi. E per questo abbiamo perseguito tale sconfitta con tutte le nostre forze sapendo di operare per il bene del nostro paese, e non per una cieca cupido dissolvendi che lei cerca acutamente, ma invano, di spiegarci. Tutto il Suo lavoro rivela che Lei è sempre rimasto estraneo agli ambienti antifascisti, durante i vent’anni del regime; e questo Le ha tolto di vedere gli avvenimenti odierni dal punto di vista di chi vi ha partecipato e ha contribuito, sia pure in minima parte, a determinarli. Lei è il tipico assente, e sconta oggi la Sua assenza con il catastrofico pessimismo che Le fa vedere il nostro popolo come un abulico e passivo oggetto di storia“.

Mentre conosciamo le parole, l’efficacia dei toni e l’assoluta credibilità delle argomentazioni contenute nella lettera di risposta che Salvatore Satta indirizzò a Mila, non sappiamo se l’intellettuale piemontese negli anni successivi e fino al 1988 (anno della sua scomparsa) ebbe modo di cambiare idea circa il De Profundis di Satta.

Rende maggior giustizia al libro il giudizio di Remo Bodei, secondo cui quello di Satta “in realtà è un atteggiamento di aspro realismo e di onesto disincanto, che guarda agli eventi con una sorta di binocolo rovesciato, ma, per l’altro, è anche la riflessione sulla non riuscita resa dei conti di un popolo con la propria storia”.

Giovanni Graziano Manca

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Sonia