Si è spento domenica pomeriggio nella sua casa di Fermo, il maestro del fotogiornalismo italiano Mario Dondero.
Milanese ma di origini genovesi, 87 anni, Dondero era un fotografo della vecchia scuola, un uomo colto e consapevole prima di essere un fotografo, uno in grado di raccontare storie con la penna prima di essere uno capace che di descriverle con la sua instancabile Leica 35mm.
Giovanissimo partecipa alla Resistenza come partigiano in Val d’Ossa e, dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, intraprende la carriera giornalistica, orientando il suo approccio ad un’indagine di carattere sociale.
Nella Milano della “Vita Agra” descritta la Luciano Bianciardi (primi anni Cinquanta) è uno dei protagonisti del bar Giamaica di via Brera, insieme a Carlo Bavagnoli e Ugo Mulas, oltre agli altri intellettuali squattrinati soliti incontrarsi nello storico (e economico come lo descrivevano essi stessi) locale.
A metà degli anni Cinquanta si trasferisce a Parigi, dove vivrà circa quarant’anni frequentando e fotografando i maggiori intellettuali del tempo (celebre la sua fotografia che ritrae insieme Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Claude Mauriac, Jérôme Lindon, Robert Pinget, Samuel Beckett, Nathalie Sarraute e Claude Ollier) e collabora con giornali quali Le Monde, L’Illustrazione Italiana, Tempo Illustrato e poi Regards e alcuni periodici africani..
Autore di una “fotografia umana”, semplice e diretta, priva di retorica e teatralità. Profondamente influenzato da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, dagli anni Settanta realizza nuovi reportage di carattere sociale e di impegno civile e politico: dalle torture in Algeria alle indagini del tribunale Russell a Stoccolma fino al conflitto in Afghanistan.
Rientrato in Italia collabora con L’Europeo, Epoca, Vie Nuove, L’Espresso e più tardi con Il Venerdì di Repubblica, il Manifesto e Diario.
A Nuoro è stato lo scorso 18 novembre, in occasione della mostra dedicata a Robert Capa. Durante l’incontro, Dondero ha raccontato Robert Capa e, attraverso quest’ultimo, se stesso e la sua lunga carriera di reporter. Al centro del discorso, l’autenticità, a lungo messa in discussione, del noto scatto che ritrae la morte del miliziano “Taino”, ucciso sulla collina de Las Malaguenas, a Cerro Muriano (Cordoba) il 5 settembre 1936.
Mario Dondero ha fotografato fino all’ultimo, nonostante la lunga malattia che lo ha vinto definitivamente ieri pomeriggio.
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Di seguito vi riproponiamo l’articolo relativo all’incontro tenutosi al MAN l’anno scorso:
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Nel corso di oltre un’ora di conversazione, Mario Dondero (Milano 1928) ha raccontato Robert Capa e, attraverso quest’ultimo ha raccontato se stesso e la sua lunga carriera di reporter a un folto pubblico, un pubblico particolare, ben diverso da quello dei vernissage, un pubblico di veri appassionati.
Il tema principale su cui si è focalizzato il discorso è l’autenticità, a lungo messa in discussione, del noto scatto che ritrae la morte del miliziano Federico Borrell Garcia, ucciso sulla collina de Las Malaguenas, a Cerro Muriano (Cordoba) il 5 settembre 1936.
Ai tempi del generale Francisco Franco, la celebre fotografia non era stata diffusa in Spagna in quanto ritenuta strumento di propaganda sovversiva. Dell’allora ventiquattrenne “Taino”, questo l’appellativo del miliziano, non si trova neanche l’atto di morte, infatti ai tempi del Generalissimo venivano registrati solo i morti por Dios y por la Patria mentre gli altri finivano nelle fosse comuni.
Da buon giornalista (Dondero nasce infatti reporter di penna e solo in un secondo momento diventa anche fotografo) è andato a verificare “sul luogo del delitto” come fossero andate le cose, seguendo la pista del racconto fatto da Franz Borkenau (nel volume The Spanish Cockpit) di un viaggio che fatto in quel settembre del 1936 insieme a due giornalisti francesi della rivista Vu (uno di essi era proprio Robert Capa), con i quali si trovò assediato dai soldati marocchini del generale Varela, durante il tentativo di riconquistare Cordoba.
Una ulteriore conferma dell’identità del miliziano gli è stata fornita da un insegnante di Alcoy, Ricard Bano, appassionato di storia locale, il quale a suo tempo aveva svolto delle ricerche interpellando direttamente con i compagni di battaglia superstiti e gli stessi genitori del giovane operaio tessile Taino.
Di recente, infine, il cerchio si è chiuso grazie al ritrovamento di un’intervista fatta allo stesso Capa nel 1947, dove lui stesso racconta nel dettaglio la vicenda, aggiungendo un dato che rende lo scatto ancora più affascinante: al riparo in una trincea, mentre infuriava la battaglia Capa avrebbe tirato fuori solo il braccio con un mano la sua Contax 35mm e scattato “alla cieca“, fissando così nel tempo “l’istante decisivo” (di bressonina memoria) della ferita a morte di Taino. Un miracolo insomma.
Un’altro aspetto fondamentale della figura di Capa affrontato da Dondero è la sua attività reporter di guerra e la vicenda dei celeberrimi scatti effettuati durante il drammatico sbarco in Normandia, in occasione del quale Capa seguì le truppe americane sulla spiaggia di Omaha Beach affrontando faccia a faccia il micidiale fuoco nazista. Di quel pericolosissimo reportage si salvarono solo una decina di fotogrammi; il tecnico incaricato dello sviluppo dei diversi rulli di pellicola, infatti, durante l’asciugatura le espose a una temperatura troppo alta che ne provocò il quasi totale scioglimento.
Oggi quei preziosi reperti sono gelosamente custoditi negli archivi della Magnum Photos (della quale lo stesso Capa era stato il fondatore insieme a Cartier-Bresson, Rodger e Seymour nel 1947).
il ritratto emerso dalle parole di Dondero, racconta di un Capa amante della vita in tutte le sue sfaccettature, interessato al sociale, agli umili, agli emarginati… non un solo reporter di guerra, insomma, lavoro per il quale è noto ai più.
Gli spunti di riflessione suggeriti dal direttore del MAN Lorenzo Giusti sono stati molteplici: si è parlato del lavoro dei reporter ai tempi del mitico Bar Giamaica a Milano (Dondero, insieme a Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas, e tanti altri, è stato uno dei protagonisti di quella che Lucinao Bianciardi aveva definiti “la vita agra“, titolo anche di un suo omonimo volume; della nascita del fenomeno romano dei paparazzi, un genere piuttosto disprezzato di fotografia ma che Fellini santificherà nella figura di Rino Barillari come cardine della Dolcevita; di fotografia americana e della figura del celebre nerista Weegee; del ruolo del fotogiornalismo nell’ambito dell’informazione, un ruolo sempre più messo in discussione dalla continua trasformazione del mercato dell’informazione; di come si stia snaturando sempre più il lavoro delle Agenzie, nate in origine per tutelare il lavoro dei reporter e ormai ridotte a una sorta di multinazionale dell’immagine. É stata ricordata, in chiusura, la figura di Pasolini, grande regista e grande amante della fotografia, col quale Dondero ha fatto diversi lavori.
Insomma la fotografia a tutto tondo. Un incontro di alto profilo, quello di ieri, una di quelle rare occasioni nelle quali sentire la storia raccontata da chi l’ha fatta in prima persona lascia una traccia profonda e indelebile non solo in chi la fotografia la pratica come professione ma anche in chi la vive come passione.
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