Giovedì 19 marzo 2015 Pino Daniele avrebbe compiuto 60 anni.
Sono passati solo poco più di due mesi dal quattro gennaio, il giorno della sua morte. Un evento sicuramente messo in conto, visto che da tempo conviveva con una grave cardiopatia (una malattia sfortunatamente diffusa nella sua famiglia) e non curabile ma avvenuta in circostanze insolite, forse frutto, anche, proprio dell’abitudine a fare quotidianamente i conti con i sintomi del male.
Il clamore mediatico, i risvolti legali, le polemiche tra la ex moglie e la sua ultima compagna di vita, le discussioni tra i familiari, la confusione alla camera ardente e ai funerali sono tutte cose che certamente avrebbero amareggiato per primo proprio Pino Daniele, che teneva molto alla riservatezza sulla propria vita privata.
Ai 60 anni Pino stava per arrivare con un nuovo album, “molto acustico” lo aveva definito, e con il fortunato tour della reunion di Nero a metà, senza dubbio uno dei momenti più felici non solo per lui ma per la storia della musica italiana.
Non era certamente entusiasta del mondo che si trovava attorno: «per un sessantenne oggi ci sono cose francamente insopportabili, per esempio l’assenza di pensiero e di figure di riferimento per le nuove generazioni».
Lui era cresciuto e diventato famoso in un mondo dove la musica era un collante umano e trasmetteva valori perché era uno degli strumenti utilizzati per cercare (almeno sognare) di cambiare le cose. Apparteneva alle generazioni che si costruivano il successo con la gavetta, “rubando” dai dischi e dai musicisti più anziani e bravi: il mondo dei talent lo guardava con un certo sospetto, anche se riconosceva che ai giovani non vengono offerte grandi alternative, vista anche la crisi della discografia.
La delusione e il disincanto non gli impedivano di tenersi aggiornato. Lo faceva tenendosi in contatto con gli artisti più giovani tipo Rocco Hunt e Clementino, che aveva invitato come ospiti in alcuni concerti del suo ultimo tour. E lo faceva studiando: ha passato tutta la vita a cercare di migliorarsi come musicista e a cercare strade nuove e nuove forme di contaminazione per il suo grande progetto di musica mediterranea, sempre sospesa tra Napoli, il Blues, a cominciare dai suoi idoli di chitarrista, Jeff Beck, Eric Clapton, ma anche Paco de Lucia, Frank Zappa («sono diventato pazzo ascoltando ‘Over Night Sensation» raccontava), Carlos Santana, Pat Metheny.
Aveva conservato un enorme rispetto per i grandi della musica e considerava l’incontro con gli altri artisti un elemento fondamentale del processo creativo: non è un caso che, oltre alle super star internazionali, ha collaborato praticamente con tutti i nomi più importanti del made in Italy musicale. La sua eredità artistica è incalcolabile: sono davvero pochi gli artisti che sono riusciti a cambiare così a fondo le regole stesse della musica italiana, rinnovando la tradizione napoletana e portando al grande pubblico livelli esecutivi e concezioni tipiche della scena internazionale.
Come in tutti i grandi lutti, forse è passato ancora troppo poco tempo per capire fino in fondo il vuoto che ha lasciato. Sarebbe bello pensare che qualcuno tra quelli che lo conoscevano bene, e magari con il contributo di qualche istituzioni, cominciasse a lavorare a qualche bella idea per conservare nel modo più bello il suo ricordo e, al tempo stesso, tutelare il prezioso patrimonio musicale.
P.B.