Un “predatore che isola la preda”, un “parassita”. Soprattutto, Giulio Caria è “il femicida di Silvia Caramazza”.
Questa affermazione, infatti, per il GUP, Gianluca Petragnani Gelosi, che ha condannato il trentaseienne muratore di Berchidda a 30 anni in rito abbreviato, è “la chiave di tutta la vicenda”.
La commercialista fu uccisa tra l’8 e il 9 giugno 2013 con sette colpi sferrati con un oggetto contundente mai trovato, il suo corpo fu scoperto in un freezer a pozzetto il 25 giugno nell’appartamento in cui viveva a Bologna.
Il compagno convivente Caria fu fermato in Sardegna due giorni dopo. È stato condannato per omicidio aggravato da stalking e dall’aver agito con crudeltà, dall’occultamento di cadavere, e per aver rubato bancomat e carta di credito alla donna, oltre che minacciato testimoni. Caria ha sempre negato tutto. Ma gli investigatori della Squadra mobile e della Procura non hanno mai avuto dubbi, svelando una serie di simulazioni e depistaggi.
Per il giudice, che motiva la condanna con 182 pagine, Caria è femicida perché agli atti vi è prova di una “precisa e duratura attività di sopraffazione volta a piegare la volontà” di lei “isolandola dai parenti, a renderla succube delle sue decisioni al solo scopo di sfruttarne le disponibilità economiche”. E quando Caramazza “ha cercato di liberarsi dal giogo in cui l’aveva costretta, facendo crollare i suoi sogni parassitari, Caria l’ha ferocemente uccisa”.
Il movente è composito, secondo il Gup: “più che di movente del delitto, si dovrebbe parlare di un insieme di pulsioni”, dovute al “tramonto del progetto di poter approfittare ulteriormente delle ricchezze di Silvia che lui credeva di aver soggiogato”. Non aveva programmato di ucciderla, ma probabilmente la sera dell’8 giugno “lei ha fatto crollare i sogni da parassita” annunciandogli “di voler troncare la loro relazione o, semplicemente, rifiutando una sua eventuale proposta di matrimonio”.E la prospettiva di tornare alla vita di prima, “una vita senza agi economici e fatta di difficoltà lavorative, ha fatto scattare l’indole violenta di Caria”.
Descritto come uomo geloso di tutto e di tutti: “voleva Silvia Caramazza solo per sé, ma non per amarla. Ma per sfruttarla, ingannarla, derubarla meglio, tenendola lontana da sguardi indiscreti. Come il predatore che, prima di colpire, isola la sua preda”. Capace di un “forcing persecutorio” e poi di simulare i contatti tra il suo cellulare e quello della donna, dopo il delitto, per depistare; di rispondere lui agli sms delle amiche di lei, che però si sono insospettite. Di accedere ai profili social di Silvia, fingendo di organizzare le nozze.
Rifiutato, dunque, “ha scatenato tutta la sua ferocia brutale”. Colpendo sette volte probabilmente con un attizzatoio da camino, mancante in casa. Il primo colpo era già letale. E allora “perché insistere? perché infierire?”, domanda il giudice: la donna aveva già perso conoscenza e lui ha continuato a colpirla, fracassandole il cranio. Le ha anche fratturato un dito e fatto dei tagli con un coltello per prendere un anello. “Come descrivere tale azione se non feroce e disumana. Altro che assenza completa di ogni sentimento di pietà e di compassione”, commenta il Gup.
«Certamente ammirevole lo sforzo compiuto dal giudice Petragnani, in quasi 200 pagine di sentenza, per motivare la sentenza di condanna di Caria alla pena di 30 anni, ma non convince in particolare per quanto concerne le aggravanti della crudeltà e dello stalking».
È il commento dell’avvocato Savino Lupo, difensore del 36enne condannato per l’omicidio, alle motivazioni della sentenza. «Unitamente al collega, Agostinangelo Marras di Sassari, e ai miei collaboratori – prosegue il penalista – ho già cominciato a predisporre i motivi di appello, fortemente convinto che giuridicamente le aggravanti di cui sopra non dovevano essere riconosciute perché non confortate da validi elementi dal punto di vista probatorio».
All’esito del deposito delle motivazioni della sentenza di condanna a 30 anni per Giulio Caria, i parenti della vittima ringraziano l’autorità giudiziaria e gli investigatori. Erano parte civile nel processo, assistiti dall’avvocato Fabio Pancaldi.