Con Pino Daniele la musica italiana perde uno degli interpreti più grandi della sua storia. La sua morte improvvisa, come spesso capita, si lascia dietro una scia di coincidenze: il suo ultimo tour, un grande successo concluso proprio pochi giorni fa, era stato dedicato alla reunion della band di “Nero a metá”, non solo uno degli episodi più felici della sua carriera ma senza dubbio uno degli eventi storici della storia della nostra musica dal vivo.
A marzo avrebbe compiuto 60 anni: e proprio di questo traguardo anagrafico aveva parlato nel corso della puntata di “Canzone” andata in onda su Rai1 il 30 dicembre, manifestando il suo disagio nei confronti di un mondo in cui avvertiva “la mancanza di pensiero”.
Il 31 dicembre aveva partecipato al Capodanno di Rai1, la sua ultima esibizione. Pino Daniele resterà un simbolo di Napoli, ma nei libri di storia va ricordato come il protagonista di un’autentica rivoluzione musicale. Quando nel 1977 uscì “Terra Mia” il pubblico scoprì un nuovo modo di fare musica d’autore: in quegli anni Napoli era uno dei centri propulsori della creatività, era l’epoca del Napoletan Power e Pino Daniele, con la sua voce inconfondibile, la sua abilità di chitarrista, l’ironia dei suoi testi ne era diventato il leader incontrastato. Fin dall’inizio il suo progetto è stato chiaro: fondere la grande tradizione della canzone napoletana e gli elementi della musica del Mediterraneo con le sue grandi passioni, il blues, il jazz, il soul e il funky, pescando nei dischi dei suoi idoli, Jeff Beck, Eric Clapton, ma anche Paco de Lucia, Frank Zappa (“sono diventato pazzo ascoltando ‘Over Night Sensation'” raccontava), Carlos Santana, Pat Metheny.
E mentre venivano pubblicati in serie album capolavoro e uscivano canzoni che sono tra le più belle della nostra storia, l’Italia scopriva una nuova figura di artista star, un napoletano “nero a metà” che stava in classifica con brani in cui la parte strumentale aveva la stessa importanza di quella vocale, con concezioni e livello esecutivo del tutto simili ai grandi prodotti della musica internazionale. Su questi concetti ha lavorato tutta la vita: Pino studiava moltissimo e ascoltava molta musica a caccia di idee nuove. Stava lavorando al suo nuovo album che, nelle sue parole, avrebbe dovuto essere “molto acustico”. Nella sua carriera ha collaborato con buona parte dei più importanti artisti italiani e con figure come Chick Corea, Wayne Shorter, Gato Barbieri, alcuni dei più celebri session men del mondo e il suo amato Eric Clapton che lo ha invitato a suonare al suo festival a Chicago, accanto ai migliori chitarristi in circolazione, in uno degli episodi più emozionanti della sua carriera.
Pino Daniele non era un grande comunicatore ma amava il confronto, con quelli più bravi di lui come con quelli più giovani. L’incontro con un altro grande napoletano, Massimo Troisi, rappresenta una tappa fondamentale della sua vicenda artistica: i due erano legati da un’amicizia simbiotica, Pino ha scritto le musiche per i primi tre film dell’amico, toccando con “Quando”, che chiudeva “Pensavo fosse amore e invece era un calesse”, uno dei vertici della nostra canzone. E’ veramente difficile valutare l’impatto della sua morte improvvisa. Pino Daniele è stato uno di quei personaggi che con la sua arte riescono a travalicare i confini del proprio ambito creativo per entrare nella storia del proprio Paese: dalla fine degli anni ’70 ci sono generazioni intere che sono cresciute con i suoi dischi e i suoi concerti, frasi e titoli delle sue canzoni fanno parte da tempo del linguaggio comune. Senza contare che, insieme a un corpus di canzoni che sono una sorta di romanzo di formazione collettivo, con la sua continua ricerca di conciliare culture diverse un prezioso modello di apertura mentale e tolleranza. La grande lezione di un grande napoletano.
(ANSA)