L’emozione del contatto col pubblico rende magico il teatro
Viso disteso, sguardo cordiale e grandi occhi chiari.
Paolo Bonacelli, classe 1939, pochi minuti dopo il termine dello spettacolo ci accoglie in camerino, appena liberatosi dai panni di Argante, l’ipocondriaco Malato immaginario ideato nella seconda metà del XVII secolo dalla penna di Molière, già struccato e con in mano una tazza di tè. Difficile credere che dopo oltre due ore di intensa recitazione, un attore si presenti così fresco e affabile.
Due battute, non vogliamo approfittare:
Alla domanda su quale sia l’ambito professionale nel quale si è sentito maggiorente a proprio agio, tra cinema, teatro e televisione (in ognuno si è misurato abbondantemente), ci racconta con dovizia di particolari che «ognuno di essi è unico e ha dei tempi diversi…, ma l’emozione suscitata dal contatto diretto col pubblico di un teatro… beh, lo rende magico. Certo non nascondo che anche il cinema mi abbia dato grandi soddisfazioni…», ricordiamo che anche nel grande schermo ha lavorato sotto la direzione dei più grandi registi italiani e di molti stranieri, tra cui Jim Jarmush, e anche sardi (era il giudice nel Figlio di Bakunin di Cabiddu)
Gli chiediamo che rapporto abbia con la Sardegna e ci racconta, punto per punto, di quando nel 1994 prese in mano la direzione artistica dell’allora Cooperativa Teatro di Sardegna (l’attuale Teatro Stabile della Sardegna), a di quando, nel 2007, in collaborazione con il Nuovo Teatro Eliseo mise in scena Aldo Moro, una tragedia italiana, scritto da Corrado Augias, fino all’ultima esibizione nuorese, nel 2012, con L’uomo prudente di Carlo Goldoni.
È quasi mezzanotte, lo lasciamo andare a cena: indossa cappotto, Borsalino verde e occhialini e ci saluta con un sorriso.
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