Ai piedi del Parco di Tanca Manna, una struttura giace nel degrado inutilizzata
Da tempo si parla della nascita del Parco di Tanca Manna, ci sono in cantiere diversi progetti per la sua valorizzazione (quello vincitore del concorso di idee indetto dal Comune qualche anno fa necessiterebbe, per essere attuato, di almeno due milioni di euro), c’è in atto una campagna di scavo dell’omonimo nuraghe e dell’area archeologica che lo circonda, ma alle pendici di quello che prima o poi diverrà una delle attrazioni della città, il Parco appunto, sorge una struttura che versa in completo stato di degrado.
Per chi si reca al quartiere Nuraghe, percorrendo la salita che fronteggia il cosiddetto “Trenino”, il complesso edilizio a schiera di matrice popolare, sulla sinistra, a bordo marciapiede si ritrova un piccolo edificio a pianterreno, privo di infissi e in palese abbandono.
Addentrandoci oltre l’ampio patio che da accesso ai vari locali, la prima cosa che salta all’occhio sono gli evidenti segni di un recente incendio che ha parzialmente distrutto le porte di alcuni vani e tutto ciò che era al suo interno, divani, coperte, frigoriferi…
Un altro ampio ambiente, invece, privo di porta di accesso, appare più in ordine: attraverso la luce fioca che penetra da uno spiraglio aperto nella serranda metallica che chiude l’ampia finestra, aperta sul patio, evidentemente manomessa, si intravedono mobiletti, alcuni tavoli e diverse sedie.
Ovunque, le pareti sono ricoperte dalle tracce delle infiltrazioni da’acqua, di scritte e graffiti.
Lo stile architettonico denota un progetto prodotto tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. In pochi ne ricordano la destinazione iniziale ma la voce unanime è che in un’epoca nella quale la zona dove sorge la struttura era considerata una zona “difficile” (gli anni Ottanta), questa divenne un luogo di aggregazione, un luogo dove stare e fare insieme.
Fallite per vari motivi alcune esperienze di integrazione sociale dei ragazzi che abitavano quel rione, (la Comunità Alloggio di via Deffenu, ad esempio), in accordo con gli amministratori si comprese che forse sarebbe stato fruttuoso andare a affrontare il problema la dove questo era in essere, cioè dove quei ragazzi ” considerati difficili” abitavano.
All’epoca vivere nel “Trenino” erano una sorta di “marchio” che ne segnava la provenienza e soprattutto la separazione. Ovviamente questa consapevolezza era vissuta con rabbia, una rabbia che si estrinsecava qualche volta in maniera un po’ sopra le righe. Questo disagio, ovviamente, non apparteneva solo a quei ragazzi ma anche alle loro famiglie, costrette a vivere la propria condizione di marginalità e esclusione malvolentieri e con un senso di impotenza.
Prima per strada, poi nella sede della Biblioteca di quartiere (che all’epoca occupava alcune stanze di una abitazione) si tentò di rafforzare i legami con i bambini e i rapporti con le famiglie; alla fine si pensò bene di occupare quella costruzione inutilizzata. Con l’aiuto dei ragazzi del posto quel luogo divenne un luogo di ritrovo, un centro di aggregazione: tavoli, sedie, una cucinetta … cartelloni ai muri, libri … insomma tutto ciò di cui si poteva sentire la necessità li c’era.
Le attività svolte inizialmente riguardavano il gioco, i compiti della scuola e i rapporti con essa, oltre alle attività legate alla disponibilità di uno spazio verde come quello che si apriva intorno alla struttura. Gradualmente il sostegno fu esteso anche ai ragazzi più grandi, agli adulti e ai genitori, coinvolgendo non solo la scuola ma anche le associazioni educative (come gli scout e la vicina parrocchia del Sacro Cuore): incontri nelle case, con ragazzi di altre zone della città, eventi comuni (feste in occasione del carnevale o del Natale …) fino alla organizzazione, durante i periodi estivi, di una settimana vissuta al mare tra ragazzi di diversi quartieri.
Col trascorrere del tempo il lavoro iniziava a dare i suoi frutti: le stesse famiglie si proponevano nell’organizzare momenti partecipativi con i bambini mentre gli adulti iniziavano ad maturare la consapevolezza che il luogo dove risiedevano, fino a poco tempo prima considerato quasi un ghetto, non era poi così male se non fosse che era abbandonato a se stesso.
Il sogno durò fino alla seconda metà degli anni Ottanta, quando la struttura, fu negata dall’Amministrazione comunale dell’epoca, nonostante i risultati che aveva consentito fossero palesi. Iniziò così il periodo dell’abbandono e della decadenza che ha condotto quella che per un breve periodo era stato una sorta di centro sociale autogestito nelle condizioni in cui la possiamo vedere oggi.
Di recente abbiamo incontrato alcuni ragazzi che frequentano gli istituti superiori della città e nel corso di una lunga conversazione, quando abbiamo chiesto loro quali fossero le cose di cui sentivano maggiormente la necessità durante il tempo libero, senza la minima esitazione ci hanno risposto all’unanimità che la loro passione principale è la musica e quello che vorrebbero è avere uno spazio dove ritrovarsi per ascoltarla, suonarla e, soprattutto, per farlo stando insieme. Ma non per strada come sono costretti allo stato attuale, essi sognano un luogo dove farlo senza disturbare nessuno e senza essere disturbati da nessuno. Insomma loro sognano la loro “Isola di Wight” da vivere in libertà, amare e preservare, mentre le strutture che potrebbero fare al caso loro esistono (quella del Nuraghe potrebbe una di queste), ma giacciono abbandonate e inutilizzate alla mercé delle intemperie.
S.Nov. © Tutti i diritti riservati