La commissione del concorso “Sardegna Reportage”, riunitasi a Nuoro il 24 febbraio scorso, ha individuato sei progetti tra i centoventi presentati al Museo MAN da altrettanti concorrenti, segnalando in particolare il lavoro di Manuela Meloni, “La terra della memoria”.
Gli altri progetti indicati dalla commissione sono quelli di Alessandra Cecchetto con “Cleopatra Uras”, Elisabetta Loi e Sergio Melis con “Il coraggio di una madre”, Stefania Muresu con “Luci a mare”, Giuseppe Onida con “Senza titolo” e Stefano Pia con “Penne di quaglia”.
Ispirato al la vicenda creativa di Robert Capa, a cui il MAN dedicherà un’importante retrospettiva a partire dal prossimo 7 marzo, il concorso “Sardegna Reportage” ricercava visione aggiornata sulla Sardegna di oggi attraverso lo sguardo dei fotografi. Coerentemente con quanto richiesto, le opere individuate dalla giuria si distinguono per la capacità di accostamento al soggetto prescelto e per il coraggio nel raccontare aspetti contemporanei dell’isola, fuori dai luoghi comuni e dai cliché tradizionali. Dei diversi lavori sono stati valutati, ancor prima degli elementi formali, le motivazioni originarie e gli intenti, l’importanza, dal punto di vista sociale, del tema scelto e la forza comunicativa delle immagini.
La commissione – composta da Gian Luigi Colin, direttore artistico del Corriere della Sera e dell’inserto culturale La Lettura, Paolo Curreli, redattore delle pagine culturali della Nuova Sardegna e Max Solinas, giornalista, photo editor e fotoreporter dell’Unione Sarda – ha così motivato la scelta fatta:
“La grande partecipazione al concorso e l’alta qualità di molti dei progetti presentati ci ha convinto a selezionare sei lavori, diversi tra loro per approccio alla fotografia, sensibilità formale, tematiche scelte e linguaggio. Tra tutti ci sentiamo di segnalare il progetto di Manuela Meloni, dedicato ai destini delle terre di Quirra, un’area della Sardegna centro orientale, sede di una servitù militare conosciuta come PISQ, oggi dismessa. Le dieci fotografie presentate, parte di una ricerca più ampia portata avanti nel corso del 2013, descrivono con rigore formale e sensibilità di sguardo lo strano connubio tra architetture militari e paesaggio agricolo, raccontando l’atmosfera “immutabile e sospesa” della vita delle comunità locali. L’importanza del tema scelto, specifico e universale allo stesso tempo, la qualità delle inquadrature, il fascino delle gamme cromatiche, la coerenza dei punti vista, rendono questo progetto estremamente interessante e meritevole di attenzione”.
Il progetto di Manuela Meloni, insieme a una selezione di scatti degli altri progetti selezionati dalla commissione, sarà esposto al Museo MAN a partire dal prossimo 7 marzo, in concomitanza con la mostra dedicata a Robert Capa.
Queste le immagini selezionate dalla giuria
Uhm…. immagini pretenziose alcune, tecnicamente imbarazzanti quelle della vincitrice. Vabbè che il MAN è in crisi, ma premiare roba del genere equivale a non sapere manco di cosa si sta parlando, quando si parla di fotografia. Tecnica? Stile? Emotività?
Nulla di nulla.
Immagini vuote, fredde, senz’ anima.
Pessima l’ inquadratura dal basso dell’ unica a colori selezionata: sarebbe in grado di farla un bambino alle prime armi col cellulare. Anche quella intitolata “Cleopatra Uras”, potrebbe esser stata scattata OVUNQUE.
Mi chiedo quali siano il parere tecnico e la motivazione della scelta.
Manco la tanto agognata “modernità” si può premiare, in foto del genere, che di moderno hanno nulla, se non un catastrofico senso di noia, di già visto (Forse sui social network?).
Come si fa a premiare una foto non a fuoco?
E una foto senza soggetto?
E’ molto facile esprimersi senza regole di base, senza messa a fuoco. Senza “racconto”, ma solo per allusioni, che vorrebbero avanzare pretese artistiche, ma rimangono ancorate al trito e ritrito, allo scopiazzo, alla mancanza totale di visione.
Quello che più desta ilarità è che il solito nome “illustre”, legato ad alcune testate locali, stavolta non l’ ha spuntata.
Ma senz’ altro… ROSICA.
Persino Kubrick si ricordava SEMPRE di mettere a fuoco (e non aveva nulla da dimostrare a nessuno).
L’ ennesima occasione sprecata.
Non ho partecipato al concorso. E meno male.
“E’ nelle sue ombre, nei suoi scatti errati, nei suoi accidenti e nei suoi esperimenti, che la fotografia si svela e si lascia analizzare.” scriveva Clèment Chèroux, tratto dal libro “L’errore fotografico” ti consiglio vivamente di leggerti qualche saggio fotografico. Quelli che tu puoi chiamare “errori” potrebbero essere delle scelte, stilistiche, di linguaggio, o anche di approccio. Credo nella soggettività e dunque nei punti di vista, sviluppare un proprio sguardo è la cosa più difficile da fare quando si parla di fotografare, bisogna imparare a guardare a condividere e soprattutto a confrontarsi. In Sardegna manca la cultura visiva, e fotografica, e questo lo si vede soprattutto dal web e da questo commento che si attacca sulla messa fuoco e sull’originalità e sulla più banale delle espressioni: POTEVO FARLO ANCHE IO, allora ti do un consiglio utilissimo: la prossima volta fallo tu invece di lamentarti.
certo, certo.
La scusa della scelta, quando manca la tecnica.
Fortunatamente, ripeto, NON ho partecipato al concorso.
Si fa presto ad assurgere a novelli Picasso dei neofiti della messa a fuoco.
Se ti parlo di periodo di latenza, mi sai dire a cosa mi riferisco?
Ricordati questo: fotografi NON si nasce. Ci vuole pratica e molta costanza. Francamente, per 3 decisioni troppo opinabili, che senz’ altro non si basano sulla tecnica, nè sul gusto, stiamo perdendo troppo tempo.
Mi chiedo, oltretutto, se tu sia a conoscenza di COME disegnava Picasso quando era ancora figurativo. Vai a vederti i disegni su cartone del genio all’ età di sette anni (SETTE), poi ne riparliamo.
Prima è il caso di imparare le regole, con relativa gavetta, solo poi ci si può inoltrare nel rischio di un linguaggio proprio.
Fidati che persino Picasso le regole le conosceva parecchio: composizione? proporzioni? scala cromatica? temperatura colore?.
Per non parlare di Capa, della Arbus, di Paolo Pellegrin…
Ma vabbè, una replica del genere pare la rosicata di uno dei “prescelti”.
Fattene una ragione: chi di fotografia se ne intende, ci sarà sempre, anche tra chi non ha la pretesa (assurda e imbarazzante, spesso) di farne una professione.
In Sardegna, solo tra quanti conosco personalmente, di neofotografi ne ho contati 158 (CENTOCINQUANTOTTO).
Che stia diventando sinonimo di DISOCCUPATO?
Pare di sì, a giudicare almeno dagli esiti del Concorso.
Ed è un peccato.
Ah, a uno in particolare dei giurati, non farei giudicare manco le foto del compleanno di mia figlia. E sai perché? Foto di gruppo di bimbi sorridenti attorno a una torta? Decisamente troppo, tecnicamente parlando, per lui.
(Sai, l’ illuminazione variabile delle candeline, tutti i visetti con espressioni sorridenti.. tutto troppo difficile, non è roba per lui).
Facile farsi un nome, qui, con qualche conoscenza.. quando all’ estero si viene cacciati a calci o non si trova posto manco a sgomitate. Poi ci si chiede il perché.
p.s.: parli di “cultura visiva”?
Ma la cultura visiva che traspare dall’ immagine intitolata “il coraggio di una madre”, qual’è?
Non presenta tecnica nè composizione, i bianchi sono COMPLETAMENTE BRUCIATI (ma potrei continuare per molto).
Sì, mi pare di aver beccato qualcuno/a che rosica, ma soprattutto, che non sa di che parla.
Ho condiviso i vincitori sulla mia pagina facebook, dovresti leggere davvero i commenti, stavolta per fartela tu, una “cultura visiva”.
Ti tranquillizzo: non partecipo MAI a concorsi, anche volendo, non mi è consentito.
E con questo, è tutto.
Caro Riccardo Terzo che non ha il coraggio di metter il proprio nome, ti illumino ulteriormente: non sai cosa faccio nella vita, quali sono i miei studi e soprattutto da quale background culturale arrivo, dunque attento a ciò che dici o alle sfide sui periodi della vita di Picasso perché caschi veramente male con me.
E soprattutto come dici tu è vero “fotografi non si nasce” per quello esiste la “ricerca”, e questa ricerca passa attraverso l’ esperienze, e tu in questo caso potresti fare una bella critica costruttiva invece di tirare merda su tutto e tutti.
La tecnica è una scelta se poi a te fa cagare, be quello è un altro discorso.. inizia a distinguere una foto buona da una foto bella.
Non pensi che ci siano persone che non per forza aspirano ad essere il Pellegrin della situazione?
A me sembri tanto il personaggio apocalittico che quando parla di fotogiornalismo dice: è morto, e che quando gli si chiede qual’è l’ultimo lavoro fotografico che hai visto mi cita: Dondero e Pellegrin, magari ci scappa anche Zizola.
Te ne rendi conto che si vive nell’era della digitalizzazione? la democratizzazione del mezzo si è vero ha permesso di esser messo mano a chiunque ma ha anche aiutato la sperimentazione di più linguaggi.
il problema nella fotografia non è di contenuto ma di linguaggio (ognuno sceglie una storia e lo sviluppa cercandosi una chiave di lettura che può diventare il lato personale del lavoro stesso)
Dai tuoi commenti si sente moltissimo un’astio e un rancore (personale? si forse personale) verso non si capisce bene se più i ragazzi premiati o i giurati.
In ogni caso buon per te se hai condiviso l’evento e se fra i tuoi amici (esattamente 158 fotografi) avrete voglia di sfidarvi a chi farà l’uscita più sofferente.
Ripeto, peccato veramente, poteva essere una bella critica costruttiva.
ps. io non vivo in Sardegna, e lavoro negli archivi fotografici.
Dunque non scomodarti a darmi della rosicona, o a generalizzarmi in tuo esperienze personali. Dai tuoi commenti hai esternato benissimo che la persona più sofferente in questa chiacchierata sei tu.
ti consiglio un altro grandissimo libro (perché prima di Pellegrin c’era altro e dopo Pellegrin c’è altro comunque)
-storia sociale della fotografia di Ando Gilardi
e magari guardati il lavoro di Darcy Padilla.
Saluti
cara Rosaria,
l’ astio personale, l’ invidia, è la scusa per chi le critiche non le regge.
Mi ha criticato perché mi invidia. No, semplicemente non sai fotografare.
Parli del “Paolo Pellegrin” della situazione?
Innanzitutto un po’ di rispetto, per una persona che, avendo avuto il coraggio di abbandonare tutto, è diventato uno dei primi al MONDO nella professione del fotografo.
Ma sì, dai, ti lascio la convinzione sull’ “astio personale”, tanto, siamo capitati in un periodo di parvenu e improvvisazioni, in cui chiunque può fare TUTTO (il risultato è proprio quello del Concorso).
Tranquilla, tra i sei selezionati, il nuovo Pellegrin non c’è: ma manco il prossimo Alessandro Grassani, sai.
Parli di democratizzazione? Fortuna che le centinaia di fotografi disoccupati non eseguono interventi chirurgici.
Io non mi farei MAI operare alla schiena da un dentista, forse tu sì.
Nel momento in cui tutti possono essere Paolo Pellegrin, mi spieghi qual’è il valore del suo lavoro?
E del tuo?
Quante sciocchezze e parole al vento.
Sempre parlando di democratizzazione, evidentemente non hai idea di cosa sia una conversione del digitale su pellicola. I fotografi professionisti (quelli veri) si stanno già attrezzando, sai? Proprio per evitare che le “democratizzazione” si mangi 20 anni, 30 anni di onesto lavoro.
Non sempre chi critica è mosso da invidia: spesso solo da ilarità.
Ma in realtà io sono la prima a chiederti una critica costruttiva e non distruttiva, non perché non le reggo ma perché ce ne bisogno, con le tue risposte mi confermi che non è quello ne il tono ne il confronto che vuoi avere, e mi dispiace tantissimo.
Pellegrin lo hai citato tu e io d’altronde ti ho risposto. Dopo tutto non ho mai detto che non sia un fotografo storico italiano ma ti ho solo invitato a pensare che forse non tutti vorrebbero aspirare a essere lui.
Lo si può avere come maestro ma non mi puoi mica paragonare il suo percorso professionale e di vita con dei giovani fotografi che hanno ancora tanto da imparare e da vedere.
Ci sarà un motivo perché esistono le critiche, e devono avere quel fine costruttivo che consenta a chi le riceve di potersi mettere in una posizione di mettersi in discussione, in Sardegna ma come d’altronde nel resto del mondo ce ne bisogno.
Quello che ti sto dicendo e che occhio a fare di tutti un fascio, perché c’è chi nel 2014 ancora è umile, e ancora ha voglia di conoscere e d’imparare e che ha intrapreso un minimo di percorso culturale/personale.
Meno male che Pellegrin non ha partecipato a un concorso aperto a dei giovani agli esordi,
non ti sembra un lato positivo? innanzitutto perché si apre ai giovani e poi perché insomma Pellegrin è in uno step professionale direi totalmente diverso dove si può permettere ben altro.
Mai detto che tutti possono essere Pellegrin, probabilmente non leggi o non capisci ciò che scrivo. Ma ribadisco che di Pellegrin ce ne uno, come d’altronde di Ghirri, di Scianna, di Davide Monteleone, di Imbriaco ect.
Se si chiamano maestri ci sarà un motivo, o sbaglio?
Nel poter fotografare o affrontare un argomento il primo valore dev’essere il rispetto e anche l’etica nel farlo, ossia qualcuno diceva: “prima di essere fotografo sii una persona”, l’approccio umano è fondamentale.
Direi che nei lavori di Pellegrin esce molto bene questo lato.
E nel mio lavoro? nel mio lavoro ho fatto il possibile per avere quel lato umano e discreto nei confronti di un territorio che ne ha viste veramente tante, anche perché in certi luoghi io ci sono cresciuta, e ho respirato molto bene quell’aria e conosco molto bene non solo le persone ma anche i luoghi.
Sai qual’è una delle cose più difficile per un fotografo? fotografare a casa sua, e io di cuor mio ci ho provato, lo scopo del lavoro non era tanto quello di far vedere ma quanto di farlo avvicinare a uno stato di abbandono in cui tutta quella zona è protagonista.
Per quello che prima di iniziarlo ci ho meditato, sono andata a vedermi tutti i lavori che sono stati fatti sulla zona e mi sono cercata un modo per raccontarlo.
Ti invito non più una lettura a sto punto ma a un bell’esame di coscienza, perché è troppo semplice arrivare e dire poteva farlo mio figlio, mi sembra veramente di parlare di aria fritta, e di metafisica nel momento in cui esiste la soggettività ma soprattutto non mi sembra la critica di uno che ha voglia di confrontarsi ma quanto di uno che ha voglia di parlare superficialmente senza aver la minima idea ne del lavoro dietro ne dell’intenzione.
Si, i fotografi si stanno attrezzando per questa grandissima evoluzione, e anche io mi sto attrezzando di buon intenti e di tanta pazienza nel sentir parlare così uno sconosciuto che non ha nemmeno il coraggio di esporsi a un confronto diretto senza far finta di essere un altro (quasi come se stessi parlando veramente a un sedicenne che lancia la pietra e poi nasconde la mano).
Direi tranquillo, ciò che è stato fatto è scritto sui libri di cultura e storia fotografia e non si cancella, quei 20 e 30 di storia non verranno sorpassati mai.
Ma fattene una ragione, ci saranno altre cose e altre storie e altri modi per raccontare ciò che succede intorno a noi.
Per fortuna non mi sento una fotografa ma un osservatrice e di maestri ne ho tanti e pensa che li prendo come riferimento sempre, e che nonostante ciò non ispiro ad essere una loro vittima ma attingo dalla loro esperienza.
Sono cresciuta in una famiglia di pastori/agricoltori/minatori che sono stati dei grandi testimoni fotografici di un epoca passata, dalle lastre che mio bisnonno fatte nel periodo della colonizzazione in Eritrea, a mio padre operaio del’ex rumianca turnista per 40 anni, che ha fotografato all’interno degli impianti di idrolisi (dove se non ci lavori, ti posso assicurare che non ci fotografi).
Ne mio bisnonno ne mio padre saranno nei libri di fotografia, ma per quanto riguarda me, e il mio percorso ti posso assicurare che sono stati fondamentali, a proposito di analogico/digitale e di approccio fotografico.
Detto questo ti saluto veramente, se avrai voglia di parlarmi direttamente troverai i miei contatti nel web.
Sempre che non hai paura di farti riconoscere! (:
Saluti a casa
M.